terrorismo islamico

La psicologia del Terrorista

In questo articolo cerchiamo di capire che cosa caratterizza la psicologia del terrorista: comprendere (che non significa condividere e accettare) è infatti il primo passo per poter pensare ad un cambiamento.

Questo è un aspetto fondamentale del lavoro dello psicologo quando deve rapportarsi a particolari categorie di persone (si pensi a pedofili, assassini, abusanti...) di cui non si condividono le azioni, ma vanno comprese per poter lavorare verso un cambiamento, anche per la psicologia del terrorista

Una definizione di terrorismo

Gli ultimi drammatici episodi di cronaca legati agli attentati di Parigi, all’aereo russo abbattuto durante il volo di ritorno dall’Egitto, gli attentati in Kenia portano prepotentemente alla ribalta il tema mai realmente sopito del terrorismo e all'interesse per la psicologia del terrorista

Ora è l’ISIS ad incutere terrore soprattutto nel mondo occidentale, Boko Haram in Africa, ma fino a pochissimi anni fa la minaccia era Al Qaeda.

Il terrorismo non è connesso a questioni religiose islamiche l’IRA in Irlanda, per esempio si muove dentro la cornice del cristianesimo, ma è davvero una lotta di religione tra Cattolici e Anglicani?) e comunque si lega a questioni totalmente non religiose: ce lo ricorda la storia italiana degli anni 60-70 ci insegna (le stragi di stato, le brigate rosse, gli anni di piombo, gli attentati irredentisti in Alto Adige), ma anche altri movimenti terroristici europei (gli attentati secessionisti nei Paesi Baschi)..
Gli esempi possono essere ancora molti e recenti.

Ma che cosa definisce un movimento terroristico?

Esplode una bomba e si spengono delle vite: che cosa cambia se chi ha messo una bomba è un terrorista (Parigi, novembre 2015), un’azione militare (Iraq) o il gesto di un individuo “folle” (la scuola Morvillo Falcone di Brindisi o la maratona di Boston). Che cosa connota un’azione come terroristica e non come azione di guerra o gesto di un individuo che è mosso da fattori personali? E in questo caso, qual è la psicologia del terrorista?

Un atto terroristico è agito da un gruppo non governativo (che non agisce cioè per nome di un governo, non è un esercito di uno stato) che per ottenere cambiamenti politici utilizza la violenza che ha come obiettivo primario i civili. Questo è uno degli assunti della psicologia del terrorista.

La psicologia del terrorismo

Già in un altro articolo di Psicologo Melzo avevamo sottolineato come non sia utile pensare che i terroristi siano cattivi e/o matti: questo modo di pensare risponde più a reazioni emotive (e legittime, in quanto le emozioni sono sempre legittime) ma poco utile a comprenderlo.

A costo di ripeterci, è utile riproporre una precisazione: comprendere non significa né accettare né condividere, ma capire le premesse alla base di questo meccanismo, perché per cambiare un qualcosa occorre prima conoscerlo.

Comportamenti sintomatici e ideologia

Dunque, i terroristi sono matti, pazzi, squilibrati? Ci sono altri criteri per capire la psicologia del terrorista?

Se seguissimo i criteri di diagnosi psichiatrica, potremmo dire che forse qualcosina a livello di personalità antisociale potremmo trovare, a livello di comportamento criminale, ignorare la sofferenza dell’altro... incapacità di empatizzare col dolore altrui... Altrimenti come potrebbero fare certe azioni?

Dunque anche tutti i militari coinvolti in una guerra e i loro governanti sarebbero diagnosticabili in termini psichiatrici, perché i comportamenti e i loro effetti sono del tutto sovrapponibili.

Più che fattori personali specifici è l’adesione a ideologie (in quanto sistema di credenze) a giustificare l’uso di comportamenti violenti. Nella letteratura psicologica, i comportamenti antisociali sono molto spesso legati a storie di profondi e grave trascuratezze infantili, a vissuti di violenza e abusi... e questo è una delle possibili caratteristiche della psicologia del terrorista.

Probabilmente in alcuni terroristi questo è presente, ma è soprattutto l’adesione assoluta a tali ideologie a rendere per loro possibili e legittimi atti di violenza estrema e, spesso, la propria morte. Il terrorista è colui che va oltre l’istinto di sopravvivenza (altro sintomo che ritroviamo spesso come fondamento di diverse diagnosi psichiatriche), ma in realtà, in un’ottica religiosa (o in una sua lettura distorta spesso), è in realtà un mezzo per guadagnare una vita eterna migliore.. il martirio, il suicidio, sono mezzi per raggiungere una vita eterna migliore (dove “migliore” va inteso secondo parametri e credo religiosi), un ideale spesso alla base della psicologia del terrorista.

Alla fine, se ci si pensa, i terroristi non fanno che applicare il principio machiavellico de “il fine giustifica i mezzi”. Non a caso, un uomo che molto si è prodigato a predicare la non violenza (Gandhi) diceva l’esatto opposto:“occupatevi dei mezzi, e i fini verranno da sé”.

Il bisogno di appartenenza

Questo è secondo me uno dei nodi principali della psicologia del terrorista, il motivo per cui una persona sceglie di aderire ad un movimento terrorista. 

Il bisogno di appartenenza è un bisogno primario, appartenere a qualcuno e qualcosa ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza nella prima infanzia e anche crescendo le nostre appartenenze incidono tanto a livello di identitià: pensate all’importanza di aderire a gruppi politici, associazioni, comunità.. ci definiamo molto anche in base al contesto di appartenenza (“essere italiani; essere cristiani; essere tifosi di una squadra, essere parte di un gruppo specifico, sia esso di volontariato come il servizio in ambulanza o un fronte animalista o l’aver condiviso una scuola in passato. In questo senso, l’esistenza di specifici gruppi su facebook è un ottimo esempio di quanto si sta dicendo).

Mi piacerebbe conoscere meglio per esempio le storie personali e familiari dei foreign fighters, nello specifico di quegli italiani che hanno scelto di combattere per l’Isis... e parlo di italiani non solo in senso di cittadinanza, ma anche di origine (diverso è esser cittadini italiani ma di origini arabe, magari di seconda/terza generazione, o essere liguri doc e arruolarsi per l’ISIS).

Non a caso i militanti sono soprattutto adolescenti, per cui appartenenti ad una fascia di età dove maggiormente il senso di appartenenza è primario, l’adesione ad un gruppo “forte” che risponda a domande sulla propria identità.

Questo è il motivo per cui occorre interrogarsi su quale vuoto va ad inserirsi un’adesione a ideali così radicali e drastici.

Avevamo già ipotizzato il nostro pregiudizio su come chi scelga una soluzione così estrema e anti ecologica, cioè anti conservativa in termini di sopravvivenza della nostra specie.

L’adesione a ideologie terroristiche è solo una delle tante appartenenze devianti a cui un ragazzo può scegliere di appartenere: si tratta della più drastica, ma ve ne sono altre molto più diffuse come l’adesione a criminalità organizzata, movimenti estremisti.

Rispetto invece ai giovani mussulmani nativi nei territori in cui l’Isis si genera, gli interrogativi possono essere diversi e muovere da un discorso di appartenenza culturale (quella religiosa) che però rivendica, dentro il pretesto della religione, un senso di ingiustizia e deprivazione da parte di altre culture/stati/religioni.

Il vissuto di base è comunque quello di una rivendicazione della propria superiorità in termini di potere e legittimità, che nascono quando il contesto è quello di un conflitto, non di un confronto di dialogo e di integrazione.

Vi è poi da fare una differenza tra i terroristi “da trincea” (chi si fa saltare in aria) e dai “deus ex machina”, quelli che stanno nelle stanze dei bottoni, ma non rischiano in prima persona, esattamente come accade nelle guerre tra stati, ma su questo dedicheremo uno spazio apposito.

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