Le chiavi di casa - disabilità e autonomia

Le chiavi di casa è un film del 2004 diretto da Gianni Amelio, che si è ispirato al libro autobiografico "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia (citato direttamente anche nel film durante uno dei dialoghi più significativi).

Il contesto e la metafora: viaggi, mezzi di trasporto e... chiavi di casa

Come sempre i film di Gianni Amelio sono carichi di significato, costruito e trasmesso anche dalla scelta delle ambientazioni: per esempio, “Le chiavi di casa” è ambientato prevalentemente sui mezzi di trasporto (treni, autobus...), che sono una buona misura, per chi ha a che fare con persone con disabilità cognitiva, dell’autonomia personale. Proprio l’autonomia è uno dei temi fondamentali del film, che ha come protagonisti un ragazzo
Il flim parla anche di autonomia, come il titolo stesso lascia intuire: non sono forse il ricevere le chiavi di casa di un ragazzo da parte dei genitori un rito di passaggio importante dall’infanzia all’età adolescenziale?

L'autonomia in persone con disabilità cognitiva e la loro famiglia

Tale rito è ancor più importante, e faticoso, quando ci si deve confrontare con una disabilità cognitiva: non è un limite della persona con disabilità, né un limite dei suoi genitori, è una situazione che riguarda la relazione tra le due parti: oltre al dato più cognitivo e organico infatti, è il modo di costruire significati, legittimare le scelte e renderle possibili a essere aspetti che incidono maggiormente sulle possibili autonomie di una persona con disabilità cognitiva.

Nel film tali dinamiche si possono osservare in scene caratterizzate da piccoli gesti quotidiani (il vestirsi, il poter stare in bagno da soli, il chiedere informazioni in una lingua non conosciuta...) e anche da scelte più intense (il lancio della stampella), seppur fuorvianti.

La trama
Non si è ancora presentata la trama del film, dando per scontato che essendo datato e famoso sia conosciuto ai più: ad ogni modo, il flim narra le vicende di un padre e del figlio preadolescente che viaggiano dall’Italia a Berlino per recarsi in ospedale, dove il ragazzo, che ha una disabilità fisica e anche cognitiva, deve essere sottoposto ad un intervento. Durante il film emerge come i due, nonostante la parentela, siano in realtà degli sconosciuti alle prese con il loro primo incontro: il padre (Kim Rossi Stuart), a causa della disabilità del figlio non aveva voluto riconoscerlo legalmente, spostandosi da Roma a Milano (dove poi l’uomo negli anni ha costruito una propria famiglia), mentre la madre del bambino moriva durante il parto.

"Do fastidio?"

Non è ovviamente caratterizzato da disinvoltura il rapporto tra padre e figlio, ma è soprattutto il genitore ad essere in difficoltà col figlio. Molto interessante una delle prime battute pronunciate dal ragazzo nel film, mentre gioca ad un videogame sul treno e, sgridato dal padre, domanda: “Do fastidio?” al resto dei passeggeri. L’inquadratura è però un primo piano del ragazzo, che pare rivolgersi agli spettatori. “Do fastidio?” Quante volte questa è l’impressione, spesso azzeccata, che hanno le persone con disabilità rispetto ai vissuti che generano negli altri.
Il padre sembra trovarsi progressivamente a proprio agio grazie al figlio che si dimostra sempre più autonomo. O meglio: il padre lentamente riesce a trovarsi a proprio agio perché riesce progressivamente a riconoscere al figlio la capacità di agire in autonoma.
L’evento clou, in tal senso, sebbene anticipato da piccoli gesti di quotidianità (il volume del televisore, la richiesta del ragazzo di non essere sorretto nella camminata), l’episodio più eclatante è l’allontanamento di un’intera giornata che il ragazzo agisce per visitare la città. Perdendosi.
Un altro gesto molto importante è il lancio della stampella da parte del padre, mentre lui e il figlio sono su una nave (per un altro viaggio altamente significativo): in questo caso, l’episodio pare più paradigmatico non della consapevolezza della potenziale e reale autonomia del figlio da parte del genitore, ma di un rifiuto della disabilità.

L'autonomia non è un fulmine a ciel sereno

Fuor di metafora cinematografica, non è possibile passare da una quotidianità fatta di controllo costante ad una “libertà” totale: diventerebbe un portare allo smarrimento di genitori e soprattutto nel figlio: a questo punto sembra molto più probabile possano accadere episodi che alzino il livello di preoccupazione al punto da tornare nelle vecchie abitudini ed usanze, limitando l’autonomia e con una (pericolosa) rinnovata certezza che “più di così non si può, nemmeno lui/lei vuole”. Già, perché spesso anche i ragazzi poi sembrano abdicare a certi bisogni, pur di non preoccupare troppo mamma e papà… occhio però all’insorgenza di nuovi sintomi,o di comportamenti “più strani”, come tentativi di affermare un proprio bisogno in una maniera che risulti meno censurabile delle richieste di autonomie, perché queste ultime sono un diritto, un bisogno naturale, e anche il ragazzino del film ce lo insegna con la sua voglia di fare sport, nonostante le difficoltà motorie, e col suo bisogno di tornare a casa perché deve “spicciare” le faccende.

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