Una commedia come spunto per una riflessione psicodiagnostica
Dal film...
"Terapia e pallottole" è un film del 1999 (Titolo originale, "Analyze this") di Harold Ramis, con Robert De Niro e Billy Crystal ad interpretare le parti di un boss mafioso italoamericano e del suo psicoterapeuta.
Si tratta di una commedia nella quale un boss mafioso, alle prese con un'importante iniziativa nel suo ruolo di capo di due cosche mafiose, inizia a soffrire di attacchi di panico e paranoia.
...alla realtà
Ci sono veramente boss mafiosi che si recano in psicoterapia?
Questo articolo viene pubblicato sul sito di Psicologo Melzo e Psicologo Novate il 19 luglio 2019, anniversario della strage di via D'Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Non è un caso.
Dopo gli attentati del 1992, e dopo i precedenti colpi inferti al sistema mafioso da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, il sistema di Cosa Nostra entra in crisi, gli uomini di Cosa Nostra entrano in crisi. In questo periodo, per la prima volta, persone appartenenti al mondo mafioso iniziano ad avanzare domande di aiuto a psicoterapeuti, in contesti pubblici e privati.
Credo che si tratti di una delle variabili che ha poi portato la psicologia ad approcciarsi con crescente interesse e approfondimenti al tema della psicologia mafiosa. Per quanto riguarda il versante della psicoterapia, nel 1995 viene pubblicato un articolo di Lo Verso sul lavoro in psicoterapia con mafiosi. Si tratta di un tema delicato e interessante allo stesso tempo, ma in questo articolo vorrei dedicarmi maggiormente all'inquadramento psicodiagnostico delle persone appartenenti a sistemi mafiosi.
Come nel film in questione, ci sono sicuramente esponenti mafiosi sintomatici per quanto riguarda fenomeni ansiosi e psicosomatici, ma non è questo il punto centrale, perchè è più sul versante della personalità l'interesse.
"Solo" una questione di personalità antisociale?
A un livello intuitivo, persone che abitualmente sono mandanti o esecutori dei crimini più esecrabili come omicidi (anche di bambini) e faide, sarebbero da collocare all'interno del cluster diagnostico dei disturbi di personalità antisociale: chi ha una personalità antisociale è una persona che ha una propria identità strutturata, anche attorno a difese molto solide e radicate. Le modalità relazionali si costruiscono sul tema del potere, che si cerca di mantenere sugli altri attraverso manipolazione e violenza, psicologica e fisica, per la quale non si prova senso di colpa (nella letteratura psicologica classica, è abbastanza consolidato che tali atteggiamenti di onnipotenza e prevaricazione siano in realtà delle difese del Sè dai propri vissuti di debolezza, fragilità e scarsa autostima).
.. Le specifiche psicologiche del sistema mafioso
Sarebbe però riduttivo limitarsi a una diagnosi di questo tipo, perchè non aiuta a comprendere alcune peculiarità del pensiero mafioso (per approfondire le caratteristiche del pensiero mafioso e della famiglia mafiosa, rimando a un mio precedente articolo, "mafia e psicologia"). L'agire di un mafioso, a differenza di un antisociale "classico", è dettato in realtà da una profonda aderenza ai valori del proprio sistema di appartenenza: spaccio, estorsioni, omicidi, stragi, ... non hanno il significato di trasgressione o ribellione, ma sono aderenti ai valori del proprio sistema e strumenti per ottenere il bene supremo della propria comunità.
Non siamo lontani dalle motivazioni per cui, al processo di Norimberga, vennero comminate pene molto blande, rispetto ai crimini commessi dai nazisti, perchè operanti in base al paradigma culturale dominante per l'epoca. Ma, ovviamente, da un punto di vista psicologico, non si tratta mai di comprendere per giustificare, ma per capire i meccanismi di funzionamento (per poterli poi cambiare). Esattamente come i nazisti con gli ebrei, o i bianchi contro i neri nelle frange più criminali razziste, certe crudeltà contro la persona sono possibili sono quando il persecutore smette di considerare la vittima come una persona, riducendola invece a entità priva di dignità e diritti.
Per aderire al sistema valoriale mafioso, in cui una persona cresce, si forma e vive, da un punto di vista psicologico occorre strutturare il pensiero e gli affetti in maniera estremamente rigida e dicotomica, perchè non è possibile non essere appartenenti "alla famiglia": l'esclusione significa non solo la perdita dell'identità, ma anche della vita.
In tale ottica, appare quanto mai utile traslare l'indicazione di Valeria Ugazio in "Storie Permesse Storie Proibite", dove, teorizzando la costruzione dell'identità all'interno di matrici relazionali, individua quattro principali semantiche e pone, per la via del cambiamento in psicoterapia, non solo il cambio di "positioning" che l'individuo può operare all'interno del proprio contesto, ma anche (ed è la novità rispetto ad orientamenti cognitivisti post razionalisti) alla possibilità di ridefinirsi in altri campi semantici.
Per chi volesse approfondire:
Lo Verso G., (1995), Mafia e follia: il caso Vitale. Uno studio psicodinamico e psicopatologico, Psicoterapia e Scienze Umane, n.3.
Lo Verso, Lo Coco, Mistretta, Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche, Milano, Franco Angeli, 1999